Gianfranco Pasquino, Professore Emerito di Scienza Politica all'Università di Bologna, commenta a proposito della proposta di discussione della legge elettorale

"Dissento, fortemente e senza nessuna possibilità di mediazione, sulla complicata proposta di riforma elettorale. Credo che il premio di maggioranza sia una forzatura controproducente. Sono per la parsimonia e l'eleganza"

"Alla fin della ballata i due criteri che ritengo essenziali per una buona legge elettorale sono: la parsimonia (quindi, il minor numero di clausolette possibili e l'eleganza, la chiarezza e la comprensibilità che danno potere agli elettori. Dubitando fortemente sulle capacità dei nostri parlamentari e dei commentatori politici non ché di molti politologi di corte e di cortile di formulare una legge elettorale decente, suggerisco che si scelga fra il sistema elettorale tedesco, proporzionale personalizzata, e il doppio turno francese senza aggiungere pasticcetti.
Sul semipresidenzialismo francese, che NON è presidenzialismo, ho una valutazione molto positiva".

La scelta di un sistema elettorale non è mai un semplice fatto tecnico. È sempre una decisione politica di notevole importanza. È politica nel senso pieno della parola poiché attiene ai rapporti fra coloro che vivono nella polis, nel sistema politico, più precisamente, da un lato, ai rapporti fra i cittadini e, dall’altro, fra i cittadini, i rappresentanti e i governanti. È una decisione politica poiché i sistemi elettorali incidono sulla strutturazione dei partiti e dei sistemi di partiti e sulle modalità di funzionamento delle istituzioni di rappresentanza e di governo. L’articolo di Sartori (1968) continua ad essere il miglior punto di partenza di qualsiasi, indispensabile, analisi delle conseguenze che un sistema elettorale ha sul sistema dei partiti. Purtroppo, la consapevolezza dell’insieme di questi rapporti è sostanzialmente sfuggita a tutti coloro – come Calderoli, Renzi-Boschi e loro consulenti, e Rosato – che, dal sottosegretario fascista giacomo Acerbo in poi, hanno proposto e fatto approvare le diverse leggi elettorali, con alcune molto significative eccezioni. Prima del fascismo la legge elettorale proporzionale fu fermamente voluta da Giovanni Giolitti proprio per dare vita ad un sistema politico a partecipazione estesa e per dare rappresentanza ai grandi partiti, socialisti e popolari, seppur nella speranza di conservare un ruolo chiave per i “suoi” liberali. Nel 1945-1946, la rappresentanza proporzionale fu opportunamente considerata la legge elettorale preferibile in un contesto nel quale, da un lato, nessuno poteva conoscere adeguatamente la società italiana dopo vent’anni di fascismo e, dall’altro, i grandi protagonisti partitici non volevano creare le condizioni per uno scontro verticale nel quale i vincenti avrebbero potuto vincere troppo e i perdenti si sarebbero trovati troppo sottorappresentati. Le leggi elettorali proporzionali sono formule difensive che non consentono vittorie di enormi dimensioni né producono sconfitte irreparabili. Infine, quanto alla forma di governo, la storia politico-elettorale dell’Europa, con l’eccezione della Gran Bretagna (nonché, naturalmente, delle altre democrazie anglosassoni), insegna a tutti coloro che desiderano imparare qualcosa che le leggi elettorali proporzionali accompagnano la nascita e la vita delle democrazie parlamentari dell’Europa continentale. È la variante anglosassone dei governi del Primo ministro che si regge su leggi elettorali maggioritarie (che richiederebbero un discorso apposito e più approfondito).

In questo articolo procederò affrontando tre tematiche: 1. Le motivazioni delle riforme elettorali in Italia; 2. Le leggi elettorali usate in Europa; 3. Le conseguenze prevedibili della legge elettorale che porta il nome di Ettore Rosato, capogruppo del Partito Democratico alla Camera dei deputati. Per forza di cose la ricostruzione sarà talvolta sommaria e molto selettiva, ma quel che conta è l’individuazione dei punti di snodo che gettino luce sugli obiettivi dei riformatori e sulle loro capacità o meno di perseguirli adeguatamente.

 

Le motivazioni delle riforme elettorali

Più di trent’anni fa proposi di classificare le riforme istituzionali in “partigiane” e “sistemiche” (Pasquino 1982). Le prime perseguono obiettivi particolaristici indicati da leader, partiti, coalizioni. Le seconde riguardano il sistema politico. Mi pare che questa distinzione sia utilizzabile anche, forse persino di più, nell’ambito delle riforme elettorali (per un’ampia panoramica si veda Regalia 2015). Non ci sono dubbi che la legge Acerbo (1923) fu congegnata deliberatamente ed esclusivamente per favorire il Partito Nazionale Fascista e i suoi possibili alleati consegnando loro una maggioranza cospicua gonfiata dal premio in seggi alla Camera dei deputati. Aggiungo subito che qualsiasi paragone di leggi elettorali successive con la legge Acerbo deve essere effettuato con grande cautela tenendo conto che l’Italia si trovava già in una situazione autoritaria e che le elezioni del 1924 non furono certamente né libere né competitive. In nessun modo, la legge elettorale del 1953 nota come legge truffa può essere legittimamente paragonata alla legge Acerbo (Piretti 2003; Quagliariello 2003). Approvata da un Parlamento democraticamente eletto, attribuiva un premio in seggi a quell’insieme di partiti che, avendo dichiarato di essere una coalizione, ottenessero la maggioranza assoluta dei voti. Come ho avuto variamente modo di evidenziare, quella legge era “truffa” per le sue eventuali conseguenze. In una fase in cui la DC praticava, come scrisse opportunamente Piero Calamandrei, “l’ostruzionismo di maggioranza” per non attuare la Costituzione (ad esempio, per non istituire la Corte Costituzionale e non dare vita all’ordinamento regionale), con i due terzi dei seggi in Parlamento avrebbe potuto riformare la Costituzione rendendo impossibile il ricorso al referendum oppositivo. La legge truffa non scattò perché mancarono circa 54 mila voti ai partiti centristi per conseguire la maggioranza assoluta. Non fu affatto, come intitola Piretti, un fallimento dell’ingegneria politica, ma la sconfitta di una discutibilissima proposta elettorale e di una improvvisata strategia politica.

Senza sottovalutare l’esistenza di una motivazione particolaristica, ovvero, al tempo stesso, rafforzare i partiti centristi e rendere irrilevanti i voti del crescente Movimento Sociale, nella legge truffa è innegabile che vi fosse anche una motivazione sistemica di importanza superiore: dare al paese un governo (centrista) stabile, legittimato dal voto popolare.  Non seguo coloro che hanno variamente affermato che quest’obiettivo avrebbe avuto anche un’importante conseguenza, vale a dire, incoraggiare/obbligare Socialisti e Comunisti a formare un polo alternativo incanalando la competizione politica in direzione bipolare. Il bipolarismo elettorale si era già avuto nel 1948, i Socialisti stavano staccandosi dai Comunisti e non avrebbero voluto ripetere quell’esperienza frontista, i Comunisti erano tutto meno che pronti a traghettarsi in un’alleanza “occidentale”, ma, soprattutto, il sistema partitico italiano non stava affatto evolvendo in una direzione bipolare. L’interpretazione di grande successo che ne diede Giorgio Galli, Il bipartitismo imperfetto (1967) era, come avrebbe dimostrato Giovanni Sartori (anzi, addirittura precedendo Galli, nel 1966, poi 1982), sbagliata. La dinamica del sistema partitico italiano era multipolare e dava vita ad un molto complesso caso di pluralismo polarizzato. Pur non essendo affatto sicuro che posso dare per scontata la conoscenza del “duello” Galli/Sartori, proseguo rilevando che la sconfitta della legge truffa pose in stallo per quasi trent’anni qualsiasi inclinazione e qualsiasi tentazione di riforma elettorale.

Il tema riemerse quando, a cavallo fra gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, Bettino Craxi, segretario del Partito Socialista, accusò il “bipolarismo” DC/PCI come responsabile dello stallo dell’intero sistema politico e fece intendere che una legge elettorale diversa dalla proporzionale, probabilmente il doppio turno francese che tanto aveva giovato ai socialisti di François Mitterrand, sarebbe stato auspicabile anche in Italia. La motivazione di Craxi fu, quindi, in parte derivante dal suo desiderio di acquisire vantaggi per il PSI, ma in parte anche dall’obiettivo di sbloccare il sistema politico migliorandone il funzionamento. In una certa, largamente imprevista, misura, la discussione sulla riforma elettorale approdò nella Commissione Bicamerale per le Riforme Istituzionali presieduta dal deputato liberale Aldo Bozzi (novembre 1983-1 febbraio 1985). Coerentemente con tutta la storia della DC e con le sue convinzioni personali e politiche, il capogruppo democristiano, mio caro collega universitario, Sen. Roberto Ruffilli perorò, senza scendere in particolari tecnici, soprattutto la causa di una legge elettorale che, accompagnata da una “cultura della coalizione”, incoraggiasse la formazione e la competizione fra coalizioni alternative e che attribuisse la carica di Presidente del Consiglio al leader del partito più votato della coalizione vittoriosa.

Sono costretto, ma, ovviamente, lo faccio con grande piacere e compiacimento personale e professionale, a ricordare qui la proposta di legge elettorale che presentai in Commissione il 4 luglio 1984, poi apparsa in un articolo sulla rivista “il Mulino” e, ovviamente, pubblicata nella successiva Relazione di Minoranza firmata dal Senatore Eliseo Milani della Sinistra Indipendente e da me (ora in Pasquino 2014).  Non intendo entrare nei particolari, ma evidenziarne i punti salienti: sistema a doppio turno, per partiti o coalizioni, con premio in seggi per chi vincesse al ballottaggio fra i due contendenti più votati e premio di opposizione per il perdente. L’obiettivo era totalmente e doppiamente sistemico: incoraggiare la formazione di coalizioni pre-elettorali che consentissero all’elettore di scegliere a ragion veduta fra le alternative che si fossero costruite; attribuire all’elettore il voto decisivo al ballottaggio, da me ritenuto essenziale; spingere verso una competizione bipolare che contenesse in sé la possibilità di alternanza. Per la piccola, ma non del tutto insignificante, storia delle proposte di riforma delle leggi elettorali credo sia opportuno aggiungere che l’on. Stefano Rodotà corse a Botteghe Oscure a denunciare che qualcuno attentava alla proporzionale e che il neo-eletto segretario del PCI Alessandro Natta mi disse: “sono proporzionalista, ma tu vai avanti con la tua proposta”.

La Commissione Bozzi chiuse le sue attività il 1 febbraio 1985 con l’approvazione di un ordine del giorno nel quale indicava il sistema elettorale tedesco come il miglior punto d’approdo di un’eventuale riforma. L’ordine del giorno fu firmato da Roberto Ruffilli (DC), Augusto Barbera (PCI), Gino Giugni (PSI), dai democristiani Nino Andreatta, Mario Segni, Pietro Scoppola. Su pressione amichevole di Ruffilli e Barbera, lo firmai anch’io facendo mettere a verbale che consideravo il sistema tedesco il second best dopo la mia articolata proposta (nota 1). Chiunque avrà interesse a leggerla troverà in quanto scrissi nel 1984 molte anticipazioni di proposte successive comparse nel dibattito pubblico in occasione della formulazione del testo divenuto noto come Italicum. Posso soltanto ipotizzare che l’assenza di riferimenti, ad opera di colleghi che si sono buttati a capofitto nell’argomento in tempi recenti, a quanto da me scritto che, a suo tempo, fu discusso su tutta la stampa comunista: da “l’Unità” a “Rinascita”, da “Democrazia e diritto” a “Critica marxista”, ma anche sulla stampa “borghese” a cominciare da “la Repubblica”, sia dovuta a semplice, ma grave e ad ogni buon conto assolutamente non giustificabile (per chi si occupa del tema), ignoranza.

Non posso esimermi dal ricordare come le tematiche sia della rappresentanza sia della governabilità fossero dibattute anche nella Commissione Bozzi. Quanto alla rappresentanza, nessuno dei componenti della Commissione pensò che la si dovesse sacrificare alla governabilità. Anzi, la difesa da parte di molti di una legge elettorale di “rappresentanza” proporzionale, non necessariamente quella vigente (che, indubbiamente, poteva essere migliorata in alcune clausole), si spiega proprio con la preoccupazione di non ridimensionare la rappresentanza politico-parlamentare di una società che si stava “mobilitando”. Il dibattito sulla governabilità, che nessuno neanche per un momento ritenne di potere migliorare più o meno automaticamente restringendo la rappresentanza, fu, però, fortemente distorto dall’impostazione formulata dai socialisti in Commissione (e fuori) per i quali governabilità significava quasi essenzialmente attribuire al governo e al suo capo (in quella fase il segretario del Partito Socialista, Bettino Craxi, che cumulava i due ruoli e le due cariche) il potere di decidere (Pasquino 1985).      

La convulsa fase successiva porterà a due referendum elettorali, quello sulla preferenza unica (9 giugno 1991) e quello sul sistema elettorale del Senato (18 aprile 1993). Sembrano molto lontani, ma furono cruciali anche e soprattutto perché le loro motivazioni di fondo erano chiaramente e fortemente sistemiche. Infatti, la richiesta di riformare la vigente legge elettorale proporzionale nasceva non da un partito e non da uno schieramento che si ponessero come obiettivo quello di puntellare o di aumentare il loro potere politico/di governo, ma da una diversificata aggregazione di parlamentari e di esponenti della società civile che sentivano che in Italia la proporzionale era diventata un ostacolo al recepimento di cambiamenti necessari che il pentapartito osteggiava e bloccava. In sostanza, seppure declinandole con modalità diverse, i fautori di una riforma della proporzionale volevano creare le condizioni elettorali per conseguire – userò la terminologia di Aldo Moro alla quale Ruffilli era particolarmente affezionato – una democrazia compiuta. Quella democrazia, variamente interpretata, avrebbe dovuto incoraggiare e garantire maggiore competitività fra partiti e schieramenti, avrebbe prodotto competizione bipolare e avrebbe reso possibile l’alternanza al governo (nota 2). Non c’è nessun dubbio che tutti questi obiettivi sono effettivamente sistemici, vale a dire che riguardano la possibilità di dare vita ad un sistema politico che, invece di essere bloccato al centro – esito, peraltro, non attribuibile unicamente alla ripartizione proporzionale dei seggi – offra la possibilità di alternanza.

Troppo affannati a criticare la recente sentenza sull’Italicum, i giuristi italiani e alcuni politologi non si sono curati di rintracciare le premesse delle diverse sentenze in materia elettorale della Corte Costituzionale, in modo speciale quella del 2011 sulla reviviscenza o meno della legge Mattarella in seguito all’eventuale abrogazione totale della legge Calderoli. Fatto sta che nel 1991 la Corte ammise il quesito che appariva meno dirompente, ovvero quello relativo alla riduzione del numero di preferenze nella disponibilità degli elettori da tre/quattro a una soltanto con l’obbligo di scrivere almeno il cognome del candidato/a. L’intenzione esplicita dei promotori del referendum era duplice: a) una sola preferenza avrebbe spezzato e reso impossibili le cordate fra candidati, prodromi e conseguenze della formazione di correnti nei partiti; b) la scrittura del cognome del candidato/a prescelto/a rendeva più difficili, se non molto improbabili, i brogli derivanti dalla possibilità di scrivere (aggiungere e manipolare) il numero di lista dei candidati, soprattutto ad opera di scrutatori conniventi e impuniti (come era successo clamorosamente nella circoscrizione Napoli-Caserta nelle elezioni legislative del 1987). Tuttavia, con un facile e voluto slittamento propagandistico, la campagna elettorale fu impostata dai referendari suggerendo che, finalmente, l’elettorato avrebbe davvero potuto scegliere, contro il volere/strapotere dei capi dei partiti, il suo rappresentante parlamentare come avviene laddove si utilizza un sistema elettorale maggioritario in collegi uninominali.        

A fronte dei molti difensori delle liste bloccate, mi pare opportuno ricordare che, primo, in una certa misura il voto di preferenza, tutt’altro che una anomalia italiana (si veda la tabella 1), si configura come un po’ di potere nelle mani dell’elettore; secondo, le uniche elezioni svoltesi con la preferenza unica non furono caratterizzate da speciali fenomeni di voto di scambio e di corruzione; terzo, l’affluenza a quel referendum segnalò che milioni di italiani ritenevano opportuno avere il potere di scegliere fra le diverse candidature (Pasquino 1993).

Tab. 1. Diffusione del voto di preferenza in Europa

Paese

Obbligo

N° preferenze

Struttura

Quota o % voti di preferenza necessari ai candidati per modificare l’ordine di lista del partito

Austria

no

1

semi-aperta

17% dei voti ottenuti dal partito nel collegio o Quota Hare nella circoscrizione regionale

Belgio

no

fino a 1 per eletto

semi-aperta

Droop quota (voti del partito nella circoscrizione/numero di seggi vinti+1)

Cipro

no

da 1 a 5*

aperta

il leader del partito è eletto direttamente, mentre gli altri candidati in base alle preferenze

Danimarca

no

1

semi-aperta

decisione sull’adozione alle preferenze lasciata ai partiti (in tal caso, Droop quota per i candidati)

Estonia

1

aperta

 

Finlandia

1

aperta

 

Grecia

no

fino a 4*

aperta

 

Lettonia

no

1 per candidato

aperta

è consentita anche l’indicazione di preferenze “negative”.

Lituania

no

max. 5

aperta

vale per la parte proporzionale del sistema elettorale misto (i partiti possono escludere l’opzione della preferenza soltanto se questa decisione è comunicata prima delle elezioni).

Lussemburgo

no

fino a 1 per eletto

panachage

Possibilità di concentrare tutti i voti su un solo candidato oppure dividerli tra più candidati, anche di diversi partiti.

Norvegia

no

1

semi-aperta

50% dei voti ottenuti dal partito in una specifica circoscrizione (soglia mai raggiunta fino ad oggi da nessun partito norvegese).

Olanda

  1

semi-aperta

25% del quoziente elettorale

Polonia

  1

aperta

 

Repubblica ceca

no

2

semi-aperta

il 10% dell’elettorato nel collegio deve aver espresso almeno una preferenza (e il candidato deve aver ottenuto almeno il 10% di tutte le preferenze per poter scalare l’ordine di lista).

Slovacchia

no

fino a 4

semi-aperta

il 10% dell’elettorato nel collegio deve aver espresso almeno una preferenza (e il candidato deve aver ottenuto almeno il 10% di tutte le preferenze per poter scalare l’ordine di lista).

Slovenia

no

1

aperta

 

Svezia

no

1

semi-aperta

5% dei voti ottenuti dal partito nel collegio.

Nota: * = in base alla dimensione della circoscrizione elettorale nei vari collegi. Se escludiamo i casi in cui la “rappresentanza personale” deriva dal collegio uninominale (Francia, Regno Unito, in parte Germania e Ungheria) o dal ricorso al Voto Singolo Trasferibile (Irlanda e Malta), i paesi che restano fuori, a far compagnia all’Italia, sono: Spagna, Portogallo, Romania e Croazia.

Il quesito del referendum elettorale 1993 sul Senato era chiarissimo poiché l’esito della sua approvazione sarebbe stato un sistema elettorale tre quarti maggioritario in collegi uninominali con il recupero proporzionale di un quarto dei candidati, i cosiddetti migliori perdenti. È opportuno sottolineare che i migliori perdenti si erano comunque presentati agli elettori, avevano fatto campagna elettorale ottenendo un più o meno grande numero di voti, potevano vantare una certa rappresentanza dei rispettivi elettorati.    Com’è noto, la traduzione del quesito referendario in legislazione elettorale fu sostanzialmente fedele nel caso del Senato. Diversa fu la situazione alla Camera dei deputati per l’elezione della quale si decise che il recupero proporzionale non doveva avere luogo nei collegi uninominali, ma su scheda separata e soltanto per i partiti che avessero superato la soglia del 4 per cento su scala nazionale. La doppia scheda, potenzialmente uno strumento in più nelle mani degli elettori, si prestò, invece, ad operazioni furbesche e truffaldine con il ricorso a liste civette per evitare lo scomputo dei voti (con l’esito, mai adeguatamente stigmatizzato, che la Camera dei deputati eletta nel 2001 non ebbe nel corso della sua esistenza il plenum mancandole undici e, poi, con la morte improvvisa di Lucio Colletti, dodici parlamentari). Ma, soprattutto, la legge, di cui fu relatore il deputato popolare Sergio Mattarella, rispose alla volontà dei capipartito, dei maggiorenti, di salvare il loro seggio parlamentare consentendo le candidature multiple (non possibili al Senato): una candidatura nel collegio uninominale e tre candidature nelle liste proporzionali. Mi pare opportuno ricordare che sia il relatore Mattarella sia il leader riconosciuto del movimento referendario Mario Segni furono sconfitti nei rispettivi collegi uninominali e recuperati grazie alle liste proporzionali. Questo elemento particolaristico non può in nessun modo offuscare il fatto che il Mattarellum (nota 3) aveva obiettivi sistemici, in primis, dare una vita ad una effettiva competitività fra gli schieramenti e aprire la possibilità di alternanza al governo. Obiettivo non secondario fu anche quello di migliorare la rappresentanza politica grazie ai collegi uninominali che permettevano ai candidati di esprimere e fare valere tutte le loro capacità personali e professionali e le loro eventuali previe esperienze politiche. Entrambi gli obiettivi furono largamente conseguiti anche se, purtroppo, soprattutto il centro-sinistra fece grande affidamento sui “paracadutati”, candidati senza nessuna attinenza né residenza nei collegi uninominali, per salvare larga parte del suo, non sempre eccellente, ceto politico. Una buona rappresentanza è altra cosa rispetto ad ottenere la vittoria elettorale perché paracadutati in collegi “sicuri”, in qualche caso addirittura protetti dalla possibilità della pluricandidatura, fino a tre, nelle liste proporzionali della Camera.

Tecnicamente, non è corretto considerare le elezioni del 1994 come le prime elezioni dell’alternanza anche se al “vecchio” dei Popolari e dell’Alleanza dei Progressisti (PDS+Verdi) si contrappose almeno un protagonista del tutto nuovo, quale Forza Italia, capace di costruire una doppia coalizione vincente con la Lega, fino ad allora mai partito di governo e con il Movimento Sociale Italiano, ugualmente mai partito di governo, trasformatosi in Alleanza Nazionale. Neppure le elezioni del 1996 furono caratterizzate dal fenomeno che correttamente dovrebbe essere definito alternanza, vale a dire la completa sostituzione di un partito/schieramento al governo con un partito/schieramento interamente diverso. Il governo non-partitico di Lamberto Dini non si presentò alle elezioni; anzi, i suoi esponenti si dispersero nei due maggiori schieramenti. All’alternanza correttamente definita si avvicinarono di più le elezioni del 2001. Pur trasformatosi e diventato qualcosa di alquanto diverse dall’Ulivo vittorioso nel 1996, lo schieramento di centro-sinistra aveva portato a termine un’esperienza quinquennale di governo. Fu sconfitto e sostituito dall’opposizione di centro-destra con i quattro partiti – Forza Italia, Lega Nord, Alleanza Nazionale e UDC – riaggregatisi intorno alla leadership di Berlusconi (Pritoni 2011). 

Indirettamente, il Mattarellum aveva conseguito un altro obiettivo, desiderato e indicato dai promotori dei referendum piuttosto che dal relatore della legge: dare più potere agli elettori. Anche se subordinatamente, il potere degli elettori sull’elezione dei candidati nei collegi uninominali si traduceva in un qualche miglioramento della rappresentanza politica dei parlamentari che sentivano di doversi rapportare al loro collegio. Quando fu chiaro a Berlusconi che la sua coalizione era destinata a perdere le elezioni del 2006, unitamente alla riforma di 56 articoli della Costituzione, il leader di Forza Italia commissionò a quattro “saggi” designati da ciascuno dei partiti della coalizione al governo anche la riforma della legge elettorale Mattarella. Quello che ne risultò fu un reale ritorno ad una legge elettorale la cui proporzionalità fu temperata dall’inserimento di un premio di maggioranza (nota 4). L’obiettivo principale della legge Calderoli (nota 5) era assolutamente, platealmente, deliberatamente partigiano: impedire l’annunciata vittoria della coalizione di centro-sinistra ovvero, comunque, limitarne le dimensioni (nota 6). Non troppo subordinatamente, eliminando i collegi uninominali nei quali abitualmente i candidati soprattutto di Forza Italia, privi di esperienza politica e di radicamento sociale, risultavano poco competitivi, Berlusconi ottenne anche la possibilità di designare i suoi candidati al Parlamento collocandoli nell’ordine da lui preferito in lunghe liste bloccate (nota 7). Con l’aggiunta della facoltà di consentire ai candidati di esserlo addirittura in tutte le circoscrizioni (facoltà da lui, convinto di essere il massimo “raccoglitore di voti”, forse a ragione, sfruttata al massimo), Berlusconi pensava di assicurarsi contro le defezioni che si erano manifestate numerose (60-80 parlamentari) in occasione della formazione del primo governo D’Alema (ottobre 1998). Quanto successe nella seconda fase del suo governo iniziato nel 2008 con la numericamente più consistente maggioranza governativa della storia repubblicana rivelò che c’è dell’altro, oltre all’obbedienza che segue alla nomina. Ci sono aspettative e previsioni che possono, nella ricerca della ricandidatura, tradursi in transumanza parlamentare. Non è un altro tema rispetto alla valutazione delle leggi elettorali, ma, certo, contiene anche la specificità italiana del trasformismo (Valbruzzi 2015).

Quasi dieci anni dopo la sua approvazione, con la sentenza n. 1/2014, e dopo il suo utilizzo in tre tornate elettorali, la legge Calderoli fu dichiarata largamente incostituzionale. In particolare, la Corte cassò il premio di maggioranza e affermò la necessità che agli elettori fosse concesso di esprimere un voto di preferenza.  Tenendo soltanto parzialmente in considerazione quella sentenza il segretario del Partito Democratico Matteo Renzi e il capo di Forza Italia procedettero alla formulazione della legge diventata nota come Italicum (per tutte queste vicende, Tarli Barbieri 2017). Alcune delle modifiche rispetto alla legge Calderoli erano davvero marginali: non più possibili le candidature multiple in tutte le circoscrizioni, ma soltanto in dieci; non più possibile l’attribuzione del premio di maggioranza a prescindere dalla percentuale di voti ottenuti al primo turno, ma soltanto al partito/alla lista che ottenesse almeno il 40 per cento dei voti. A causa del divieto della formazione di coalizioni, questa soglia non appariva raggiungibile da nessuno dei partiti esistenti. Di conseguenza, l’Italicum prevedeva un ballottaggio fra i due partiti/liste più votate, ponendo il veto su eventuali apparentamenti fra il primo turno e il ballottaggio. Le liste continuavano ad essere chiuse e bloccate.

Sbandierata come la “legge che tutta Europa ci invidierà e che mezza Europa imiterà”, che consentirà di conoscere il vincitore la sera stessa delle elezioni (chiaramente una millanteria poiché si sarebbe dovuto attendere l’esito del ballottaggio una o due settimane dopo il primo voto), una nuova sentenza della Corte Costituzionale del 25 gennaio 2017  bocciava la legge in quello che era il suo cuore pulsante, ovvero il ballottaggio (nota 8), aggiungendo che i candidati eletti in più collegi non avrebbero potuto scegliere quello nel quale “insistere” , ma si sarebbe dovuto procedere ad un sorteggio (nota 9). Che la stabilità del governo (alla luce delle clausole anti-coalizioni/anti-apparentamenti (nota 10) dell’Italicum non posso scrivere diversamente) dovesse essere affidata al premio di maggioranza ricorda la legge truffa, la riabilita e la redime. L’autorevolezza di un governo, però, non dipende da nessun premio, ma dalla sua capacità di rappresentare gli elettori, di avere correttamente e intelligentemente preso in considerazione le loro preferenze e i loro interessi, di saperli tradurre soddisfacentemente e adeguatamente in politiche pubbliche. Nelle clausole dell’Italicum, ma ancor meno nelle motivazioni che lo accompagnavano e lo lodavano, non si può trovare nessun riferimento alle modalità di traduzione di preferenze/interessi in politiche (nota 10). L’Italicum perseguiva ossessionatamente e ossessivamente un solo obiettivo: la formazione di un governo composto da un solo partito sostenuto da una maggioranza parlamentare più che assoluta prodotta (non “assicurata”, come pudicamente affermato dagli estensori della legge, ma “fabbricata” dal premio di maggioranza) a scapito della rappresentanza. Tuttavia, stabilito che tutti i capilista erano “bloccati”, ovvero assured, cioè, assicurati della loro elezione (nota 11) – questo era quanto, desiderava Berlusconi e gli bastava –, le pressioni di molti parlamentari consapevoli che il meccanismo delle liste bloccate avrebbe distrutto le loro opportunità di rielezione costrinsero Renzi a concedere il ricorso alle preferenze, una o due, ma, in quest’ultimo caso, da esprimere per candidati di genere differente (nota 12).

Dopo avere malamente tastato il terreno con una variante che snaturava il vigente sistema elettorale tedesco (che si chiama ed è: rappresentanza proporzionale personalizzata), attraverso contatti fra Renzi e Berlusconi è stata elaborata e approvata una legge elettorale simile per entrambi i rami del Parlamento che porta il nome del capogruppo del Partito Democratico alla Camera dei deputati, Ettore Rosato. Non è questo il luogo per una analisi dettagliata. Mi limito ad una sintetica descrizione. Primo, nonostante allarmatissimi articoli sui quotidiani da parte di commentatori che confondono il premio di maggioranza con una legge maggioritaria, la legge Rosato non configura un ritorno alla proporzionale (e poi a quale proporzionale?). Al contrario, contiene, per quanto confezionati in maniera balorda, elementi di maggioritario che ammontano ad un terzo circa dei seggi in entrambi i rami del Parlamento. Duecentotrentadue deputati e centosedici senatori saranno eletti in collegi uninominali e trecentottantasei deputati e centonovantatre senatori nelle circoscrizioni proporzionali, piccole per i deputati, da due a quattro eletti per circoscrizione, e in circoscrizioni regionali, come impone la Costituzione, per il Senato. Oltre alla candidatura nel collegio uninominale sono ammesse fino a cinque candidature nelle circoscrizioni proporzionali cosicché fin d’ora possiamo essere certi (assured), anche se in verità non ne sentivamo il bisogno, che nessuno dei dirigenti dei partiti e dei loro collaboratori più stretti perderà il seggio.

Grave limitazione del potere degli elettori è l’impossibilità di esprimere un voto disgiunto, che rappresenta un pregio notevole della legge elettorale tedesca , di cui qualche milione di elettori in Germania fa regolarmente uso, e quando è loro concessa questa facoltà, come nelle elezioni siciliane del novembre 2017, lo fanno, e lo farebbero, anche gli italiani. L’elettore che traccerà la crocetta sul nome del candidato nel collegio uninominale automaticamente voterà per tutti i partiti della coalizione che appoggia quel candidato. Se l’elettore traccia la crocetta sulla coalizione altrettanto automaticamente il suo voto confluirà sulla candidatura nel collegio uninominale (per tutte le incongruenze e le conseguenze impreviste, ma in parte prevedibili si veda l’articolo di Tarli Barbieri in questa rivista). La legge Rosato è, per il momento, l’ultimo tentativo di salvare quel che resta della partitocrazia italiana, paradossalmente condivisa da un partitocrate fu rottamatore, Matteo Renzi (e dal suo giglio non tanto/non abbastanza magico), e da un autocrate, Silvio Berlusconi, che vuole mantenere il controllo su coloro che “nominerà” al Parlamento. Consentendo le coalizioni alle quali potranno dare il loro appoggio anche una pluralità di listine costruite ad hoc da dirigenti affamati di seggi, la legge Rosato è stata esplicitamente e deliberatamente congegnata in modo da svantaggiare il Movimento Cinque Stelle che rifiuta in via di principio qualsiasi coalizione (ma che potrebbe pure cercare e trovare qualche non disprezzabile escamotage: una lista Grillo, una lista Casaleggio, una lista Onestà).

 

 

Finalità della riforma elettorale

 

 

Partigiana

Sistemica

Promotore della riforma elettorale

Partiti

Porcellum, Italicum, Rosato

Mattarellum

Società/elettori

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Referendum 1991, 1993

 

 

 

Tirando le somme. Scardinata la legge elettorale proporzionale, fatta casualmente la scoperta che una legge elettorale incompiutamente maggioritaria come la legge Mattarella poteva consentire all’elettore, a determinate condizioni, anche di scegliere fra coalizioni che si candidavano al governo, i politici e i loro esperti di riferimento non hanno tenuto in nessuna considerazione che il compito cruciale di un qualsiasi meccanismo elettorale consiste nell’eleggere bene un Parlamento. Ossessionati dall’obiettivo di avere governi stabili, hanno fatto ricorso a premi di maggioranza la cui unica conseguenza sicura era ed è stata quella di stravolgere la rappresentanza politica senza in cambio conseguire l’obiettivo che la maggioranza di loro definiva/definisce governabilità. Parlamentari che non rappresentano gli elettori, ma che sono debitori del loro seggio ai dirigenti di partito e ai capi delle correnti risponderanno a quei dirigenti e a quei capi almeno fintantoché avranno una ragionevole aspettativa che la loro ricandidatura è nelle mani degli uni o degli altri. Spezzata la rappresentanza non si innescherà in alcun modo il procedimento dell’accountability, della responsabilizzazione, del rispondere all’elettorato di quanto fatto, fatto male, non fatto, con conseguente assunzione di responsabilità. Non ci saranno elettori in grado di rivendicare al loro voto l’elezione di qualsivoglia parlamentare. Salvo lodevolissime eccezioni, non potranno esserci parlamentari che rendano conto agli elettori (a quali elettori?) delle loro proposte, delle loro attività, dei voti espressi spiegando perché e per come al fine di essere rieletti.

L’ingovernabilità, che è fondamentale demerito di chi sta al governo, intesa come incapacità di produrre governabilità, ma anche un po’ derivante dalla società, a causa della sua frammentazione e del suo corporativismo (AA.VV. 2017), è la conseguenza logica di leggi come quella di Calderoli e conseguenza assolutamente probabile anche della legge Rosato. A riprova, nessuno discute, né tantomeno, si duole, della cattiva rappresentanza. Tutti si concentrano sulla difficoltà, da molti l’impossibilità viene già data per certa, di formare una coalizione di governo in un parlamento diviso in tre schieramenti di consistenza numerica pressoché eguale. Parlamentari rappresentativi del loro elettorato saprebbero come risolvere il problema e come spiegarlo agli elettori. Non esiste nessun fantomatico trade-off fra rappresentanza e governabilità. È un’invenzione tutta italiana di cattivi maestri e pessimi allievi. La buona rappresentanza offre il miglior trampolino politico per la governabilità. La cattiva, limitata, compressa rappresentanza è la premessa dell’ingovernabilità. Hic Italia his salta.

      

Note

  1. Molti anni dopo, grande è stata la mia soddisfazione nel leggere l’articolo di Sartori, Il modello tedesco deve essere tedesco pubblicato il 18 giugno 2000 (adesso in Sartori 2004). Altrettanto grande è stata la mia irritazione quando fra le varie proposte di riforma nel giugno 2017 il PD ha fatto spuntare il Tedeschellum che era uno stravolgimento balordo del sistema elettorale tedesco quale esso è e come funziona. Al proposito, non si tratta affatto di un sistema misto nella erronea classificazione di Shugart e Wattenberg (2001), ma di un sistema proporzionale flessibile che consente una rappresentanza proporzionale commisurata alle percentuali di voto ottenute da diversi partiti che hanno superato la clausola di accesso al Bundestag: 5 per cento su scala nazionale.  

  2. L’effettuarsi dell’alternanza al governo non è in realtà, secondo Sartori, una caratteristica costitutiva della democrazia. Quello che conta è che esista – qui combino il mio pensiero con quello, senza stravolgerlo di Sartori – una credibile aspettativa di alternanza, vale a dire che gli “attori”: cittadini, rappresentanti e governanti, opinione pubblica, pensino che l’alternanza è possibile. La tesi di dottorato di Marco Valbruzzi (2017) risponde efficacemente e convincentemente a tutti gli interrogativi, comparati e paese per paese delle democrazie dell’Europa occidentale.

  3.  Quando Sartori coniò il termine Mattarellum per criticare la nuova legge elettorale intendeva soprattutto riferirsi all’inconveniente, all’inizio neppure percepito dagli estensori della legge, che le modalità del recupero proporzionale non avrebbero affatto prodotto una riduzione del numero dei partiti, ma, al contrario, avrebbero dato ai partitini un significativo potere di ricatto consentendone la sopravvivenza e persino la moltiplicazione. I partiti rappresentati in Parlamento, che erano stati sette-nove dal 1946 al 1992, diventarono undici-tredici nella fase successiva. Ricordare Sartori per la definizione beffarda senza mettere in piena evidenza la sua capacità di avere immediatamente colto il grave punto debole della legge Mattarella, vale a dire la possibilità di “proporzionalizzare” i collegi mantenendo, se non addirittura accentuando, la frammentazione del sistema dei partiti, racconta molto sui “ricordanti” e sulle loro scarse competenze elettorali.

  4.  In effetti, è più corretto parlare di premi di maggioranza: uno nazionale per la Camera dei deputati da attribuire alla coalizione che semplicemente avesse ottenuto più voti affinché potesse appoggiarsi su 340 seggi, poco più della maggioranza assoluta (316); un premio per ciascuna regione nella votazione per il Senato poiché, per un insieme di circostanze, fra le quali la fretta dei riformatori e il loro timore, forse suscitato da qualche consigliere giuridico, che il Presidente Ciampi avrebbe rinviato al Parlamento un testo che non tenesse conto del dettato costituzionale: “art. 57 Il Senato è eletto su base regionale”. A mio modo di vedere, sarebbe stato sufficiente attribuire il premio alla coalizione che avesse avuto più voti in assoluto e poi “spalmare” i seggi regione per regione in base ai risultati conseguiti in ciascuna di loro. La distribuzione regionale giocò fortunosamente a favore del centro-destra, molto votato in alcune regioni popolose, quindi dotate di più seggi da assegnare come premio: Lombardia, Sicilia, Veneto, Campania. Sui premi di maggioranza si vedano le riflessioni raccolte da Chiaramonte e Tarli Barbieri (2011). Qui mi limito a dire che i premi di maggioranza hanno un senso quando consentono ad una minoranza (purché) cospicua di accedere alla maggioranza assoluta. Aggiungo, poiché nel confuso e manipolato dibattito pubblico italiano qualcuno, come D’Alimonte e lo stesso Renzi, hanno variamente paragonato il ballottaggio dell’Italicum, con relativo premio in seggi, al ballottaggio presidenziale francese, che questo è un paragone improponibile e assurdo. Nel primo caso si elegge(va) un Parlamento (Camera dei deputati), nel secondo un Presidente senza dargli nessun premio, ma conferendogli una carica monocratica, come avviene in tutti i presidenzialismi, i semipresidenzialismi e persino in alcune democrazie parlamentari: ad esempio, Austria e Islanda.

  5. Ancora una volta, il nomignolo Porcellum affibbiato da Sartori alla legge Calderoli in un articolo sul “Corriere della Sera, 28 marzo 2006 (ora in Sartori 2009) ha molta sostanza. Infatti, intendeva mettere in rilievo quanto dichiarato da Calderoli, vale a dire che la sua legge elettorale mirava proprio a svantaggiare il centro-sinistra. Era non una semplice “porcheria” (cosa fatta male, uno sbaglio brutto), ma una “porcata” (parole di Calderoli) congegnata in vista di uno scopo semplice e chiaro. Poi, Prodi ci mise del suo con una pessima campagna elettorale che ridusse ai minimi termini il suo cospicuo vantaggio iniziale, conseguenza anche delle primarie del centro-sinistra. Anche Berlusconi ci mise del suo con l’annuncio dell’abolizione della tassa sulla casa nell’ultimo dibattito televisivo tre giorni prima del voto. 

  6. Queste liste bloccate hanno rifatto la loro, considerevole, comparsa con l’Italicum, per tornare a fiorire appieno con la legge Rosato. Il Ministro Maria Elena Boschi è arrivata a dichiarare che i capilista bloccati sarebbero stati i veri “rappresentanti di collegio”. Evidentemente, non sa che in politica la rappresentanza è tale solo se e quando è effettivamente elettiva (sul punto, essenziale è l’argomentazione di Sartori 1990). Non vi è mai rappresentanza politica quando i cosiddetti rappresentanti sono nominati, designati, cooptati, paracadutati. Costoro sono e probabilmente cercheranno di essere “commissari di partito”, in altri tempi i “compagni mandati dal centro”. Quanto al controllo sulle candidature e sugli eletti, rimane ed è l’obiettivo primario di Berlusconi il quale, non a caso, è stato favorevole ad entrambe le leggi. Alcuni improvvisati e impuniti “esperti” elettorali si sono variamente esibiti per radio/TV e sui “social” sostenendo che dappertutto sono i partiti che nominano i candidati e che, quindi, la legge Rosato non può e non deve essere criticata per questa ragione. Sbagliato. Tanto per cominciare nei collegi uninominali l’ultima, e decisiva, parola spetta agli elettori. Inoltre, la critica non va soltanto a coloro che hanno il potere di definire liste e graduatorie (fenomeno che, comunque, meriterebbe approfondimenti comparati anche relativi alla democrazia interna ai partiti), ma al fatto che, grazie alle liste bloccate accompagnate dalle pluricandidature, i dirigenti dei partiti italiani e delle correnti decidono chi sarà eletto e dove. Quindi, la nomina in una determinata circoscrizione e l’ordine di collocazione nella lista equivalgono alla designazione come parlamentare. Dopodiché, chi parla di “crisi di rappresentanza” è servito. Chi rappresenteranno gli eletti: i cittadini-elettori, i dirigenti di partito e di corrente che li hanno “nominati”, i gruppi di interesse che ne hanno suggerito i nomi a quei dirigenti, gli (inconoscibili) elettori? È un quesito che Giovanni Sartori pose in una ricerca sul Parlamento italiano pubblicata nel 1963. Oggi, grazie alle leggi Calderoli e Rosato (e alle intenzioni dell’Italicum) la risposta può essere inequivocabilmente data. Gli eletti non risponderanno agli elettori, ma ad un mix nient’affatto virtuoso di dirigenti di partito e di sponsor dei gruppi d’interesse.

  7. Il ballottaggio era stato respinto dalla Corte con la motivazione che, senza la previsione di una percentuale minima di voti per accedervi, il premio avrebbe potuto essere eccessivo/stravolgente qualora conquistato da un partito la cui percentuale di voti al primo turno fosse stata molto bassa.  Avrebbe trasformato artificialmente in maggioranza assoluta anche una lista che avesse riscosso un consenso limitato, se non addirittura esiguo. L’obiezione ha senso e certamente non la si può ridicolizzare con paragoni, questi sì ridicoli, come ho già rilevato sopra, al ballottaggio con il quale nella Repubblica semipresidenziale francese viene eletto il Presidente della Repubblica poiché quel ballottaggio serve a designare un vincitore non ad attribuire seggi. Né il paragone tiene con il secondo turno nei collegi uninominali francesi che, di nuovo, eleggono un parlamentare e non “regalano” quote di seggi. Il paragone non è fra pere e mele, che possono essere legittimamente paragonate (peso, colore, costo, potenziale nutritivo), ma fra pere e pietre, ovvero tutta un’altra storia.

  8. Potendo scegliere dove insistere e dove desistere, i dirigenti di partito, che sono, naturalmente, i più probabili dei pluricandidati, decidevano della non-elezione del candidato a loro meno gradito. Piccola coda velenosa delle liste bloccate.       

  9. Le clausole anti-coalizioni e anti-apparentamenti sono nelle democrazie parlamentari sostanzialmente assurde. Vanno proprio contro la logica della costruzione del consenso elettorale e politico. Per l’ennesima volta sottolineerò che praticamente tutti i governi delle democrazie parlamentari non-anglosassoni ovvero, meglio, laddove la legge elettorale è proporzionale, sono governi di coalizione. Aggiungo che in Italia gli apparentamenti sono previsti e “premiati” dalla legge, quasi unanimemente considerata ottima, per l’elezione dei sindaci dei comuni al di sopra di 15 mila abitanti. Quanto al sorteggio, non sarebbe (stato) preferibile stabilire che il pluricandidato fosse obbligato ad accettare l’elezione nella circoscrizione nella quale aveva ottenuto la più alta percentuale di voti? Lì, ovviamente, è da considerarsi maggiormente “rappresentativo”. Misteri poco gloriosi della Corte Costituzionale e dei suoi eventuali esperti informali.

  10. Credo di essere legittimato a ritenere più che rappresentativa l’opinione di D’Alimonte (2015), variamente autodefinitosi “zio dell’Italicum”, il quale, con mia grande sorpresa, ha sottoscritto nell’articolo citato il seguente Disclosure statement: No potential conflict of interest was reported by the author (p. 291).

  11. Come ho già segnalato, il ministro delle Riforme Istituzionali Maria Elena Boschi ha orgogliosamente difeso i capilista bloccati, contro le critiche di alcuni professoroni, sostenendo che debbono essere considerati i rappresentanti del collegio. Qui aggiungo che un minimo di conoscenza della storia politica e elettorale italiana sarebbe sufficiente per ricordarsi che normalmente e comprensibilmente nessuno dei moltissimi paracadutati nei collegi sicuri ha mai avuto e mostrato interesse a svolgere compiti di rappresentanza nel “suo” collegio. Mi imiterò ad un solo, ma emblematico, per il peso politico della persona, esempio. La siciliana di nascita e di residenza Anna Finocchiaro, nel dicembre 2016 succeduta a Boschi nella carica di Ministro delle Riforme Istituzionali, è stata Senatrice dell’Emilia-Romagna dal 2008 al 2013, e della Puglia dal 2013 al 2018. 

  12. Il 29 dicembre 2014 sono sobbalzato sul mio divano quando il Presidente del Consiglio Renzi annunciò con totale sicumera e senza essere contraddetto da nessuno dei molti giornalisti presenti che l’Italicum era un Mattarellum con le preferenze. Semplicemente, non sapeva di cosa parlava. Naturalmente, non è il solo. E’ male accompagnato anche da non pochi politologi che non sanno di cosa parlano quando entrano nel terreno delle leggi e dei sistemi elettorali. La dimostrazione più lampante di confusione analitica, nonché di ignoranza del dibattito pregresso, si trova nel pessimo articolo di Passarelli (2014).  

IL RAPPORTO TRA CITTADINI, PARTITI ED ISTITUZIONI E LA QUESTIONE ELETTORALE ITALIANA

 

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